Privacy Policy Il “caso” della giovane Giuseppina Ghersi. – History Files
 

DopoguerraIl “caso” della giovane Giuseppina Ghersi.

Quando finanche la tragica morte di una fanciulla diventa strumento di contesa politica.
historyfilesmercoledì, 11 Ottobre 2017 ore 19:58:3326936 min

Alcune settimane fa ha suscitato enorme scalpore il vespaio di polemiche sollevato in seguito all’iniziativa patrocinata dal consigliere comunale di centrodestra, Enrico Pollero – con trascorsi di ex segretario cittadino del partito di Francesco Storace “La Destra”, eletto consigliere in una lista civica e poi, nel luglio del 2016, approdato nelle fila di “Forza Nuova” – di ricordare la giovane Giuseppina Ghersi (1931 – 30 aprile 1945), una ragazzina di appena 13 anni uccisa dai partigiani, con una targa commemorativa nella piazza dedicata ai fratelli Rosselli.

Anche se, nella sostanza, si può legittimamente comprendere la reazione ad un’evidente provocazione politica, non si può tuttavia in alcun modo condividere nella forma la presa di posizione dell’ANPI di Savona espressa nella dichiarazione rilasciata dal suo presidente Samuele Rago in merito a questa querelle sorta a Noli, piccolo comune del savonese.

«Siamo assolutamente contrari – afferma Rago –. Giuseppina Ghersi era una fascista. Protesteremo col Comune di Noli e con la prefettura. Eravamo alla fine della guerra, è ovvio che ci fossero condizioni che oggi possono sembrare incomprensibili».

Poco dopo, però, per non alimentare ulteriori polemiche e strumentalizzazioni, il Comitato provinciale di Savona dell’ANPI in un comunicato ad hoc diffuso il 15 settembre, ha precisato quanto segue:

Polemiche, che riteniamo pretestuose e che ci hanno attribuito opinioni mai espresse, sono state sollevate sulla contrarietà che abbiamo manifestato circa la volontà dell’Amministrazione Comunale di Noli (SV) di erigere una Lapide in memoria di Giuseppina Ghersi.
Non intendiamo alimentare ulteriori polemiche, ma solo ribadire ciò che abbiamo effettivamente detto, per concludere una diatriba ormai chiaramente strumentale.
La nostra contrarietà non ha nulla a che vedere con l’atrocità compiuta, nel 1945, nei confronti della ragazza, violata e uccisa da alcuni partigiani: atrocità che non abbiamo mai giustificato, e che invece condanniamo senza riserve.
Rammentare che la Ghersi era organica alle Brigate Nere serve solo a chiarire la verità storica e a ricordare come il Fascismo coinvolse tante e tanti giovani nel dramma del totalitarismo e della guerra: questa è la prima violenza subita da ragazze come Giuseppina Ghersi, senza che ciò comunque giustifichi – lo ripetiamo – la sua fine.
Perciò, se qualcuno vuole fare davvero qualcosa per la sua memoria dovrebbe vigilare ed agire per impedire che il fascismo risollevi la testa, come invece sta accadendo in questi tempi in cui organizzazioni neofasciste e razziste operano seminando ancora odio in Italia ed in Europa.
L’iniziativa che abbiamo contestato (ed è proprio per questo che l’abbiamo contestata) sembra ottenere l’effetto non di commemorare un evento doloroso, ma di strumentalizzarlo politicamente, come dimostra il commento della Sezione di Savona di Forza Nuova (com’è noto, l’organizzazione che il 28 Ottobre vuole rifare la marcia su Roma):
“Vittoria Camerati! Verrà intitolata una targa a Giuseppina Ghersi a Noli! Il 30 Settembre tutti a Noli! A noi!”
La pacificazione, che si dice voler raggiungere, non si ottiene cancellando il passato e attenuando le responsabilità storiche del Fascismo, ma è già stata offerta – e continua ad esserlo – dalla vittoria della Resistenza e dall’affermazione della nostra Costituzione interamente antifascista.

Giuseppina Ghersi

Giuseppina era nata il 12 luglio del 1931 a Savona da Giovanni Ghersi e Laura Mongolli, due commercianti ortofrutticoli, che abitavano in via Tallone e, all’epoca dei fatti qui narrati, frequentava l’istituto magistrale Maria Giuseppa Rossello che sorgeva nel quartiere “La Villetta”.

Il 26 aprile 1945, alle prime luci dell’alba, mentre i coniugi Ghersi come ogni mattin si recavano al loro banco di frutta e verdura, nella zona di San Michele, poco dopo le 6.00, furono fermati da due partigiani armati di mitra che, senza battere ciglio, li condussero presso il centro di detenzione dei fascisti allestito nell’attuale Scuola Media Guidobono di Legino, dove furono prelevate le chiavi del loro appartamento e del negozio. La figlia riuscì a sfuggire momentaneamente all’arresto solo perché si trovava in casa di alcuni amici in via Paolo Boselli 6/8.

Ma ecco, brevemente, come si svolsero i fatti di cui qui abbiamo accennato, descritti con dovizia di particolari nell’esposto presentato dalla madre della fanciulla il 27 gennaio 1949, nella questura di Savona, dinnanzi al funzionario di P.S. dr. Pietro Fabiani, In merito all’uccisione della figlia Giuseppina.

Giuseppina Ghersi

Nel mese di febbraio 1944, una sera alle 19 circa, si presentarono nella nostra abitazione due individui mascherati, i quali, rivolgendosi a me (mio marito era assente) puntandomi una rivoltella, mi chiesero dove si trovasse mia figlia. Era loro evidente intenzione di prelevarla. Per fortuna la ragazza non si trovava in casa, ed i due dovettero desistere dal loro proposito. Io mi misi ad urlare ed i due fuggirono.

Non mi resi conto subito del perché i due che indovinai subito essere partigiani, cercassero di portar via mia figlia: soltanto più tardi seppi che era stata messa in giro la voce che la bambina fosse una spia. Questa diceria, probabilmente, era nata dal fatto che a pian terreno della mia abitazione, in un appartamento di nostra proprietà, alloggiavano alcuni «S. Marco», con i quali qualche volta la bambina si intratteneva. Anche io e mio marito eravamo probabilmente odiati, perché, per ragioni del nostro commercio, avevamo contatti saltuari con elementi delle forze nazifascisti.

Il giorno 26 aprile 1945, io e mio marito, mentre ci recavamo al mercato, alle ore 6.30 circa, venimmo fermati da due partigiani armati, di cui uno si chiama De Benedetti, ed accompagnati al Campo di concentramento di Legino. Giunti colà, passammo il giorno e la notte senza essere interrogati. La mattina successiva, venni interrogata dal comando del Campo, e con minacce e percosse fui costretta a dire dove tenessi nascosti i denari, nella mia abitazione. Si fecero consegnare le chiavi. Ho dimenticato di dire che prima di chiedermi dove tenessi il denaro, mi avevano fatto promettere di consegnar loro mia figlia. Non conosco di nome alcuno di quelli che mi interrogarono, ricordo soltanto che uno di loro era chiamato «comandante» ed era piccolo di statura con i capelli castani ondulati.

Alla fine dell’interrogatorio, il «comandante» ordinò ad un partigiano, che in seguito seppi chiamarsi Guerci, di accompagnarmi a cercare mia figlia. Io, vinta dalla paura, accompagnai il Guerci a prendere la bambina, che si trovava in casa di nostri conoscenti, e tutti e tre rientrammo al Campo.

La sera del 27 mio marito ed io venimmo trasferiti presso le carceri di S. Agostino. Io venni rilasciata dopo pochi giorni (non ricordo la data precisa) e mio marito l’11 di giugno.

Appena uscita dal carcere, seppi da mia sorella e da una mia amica che circolava voce che mia figlia fosse stata uccisa. Trovai la casa in disordine, priva dei valori e dei commestibili che vi avevo lasciato. Rintracciammo poi la tomba della bambina nel cimitero di Zinola. Presso il locale municipio risulta deceduta il 26 Aprile.

La data è certamente sbagliata in quanto mia figlia il giorno 27 era ancora certamente viva. Mio marito, in carcere, seppe da fascisti, che successivamente vennero uccisi, che mia figlia era stata uccisa da un certo Gatti residente a Bergeggi, con un colpo di rivoltella alla nuca. Non siamo in possesso di altri elementi utili all’identificazione dei responsabili dell’uccisione di mia figlia.

Per quanto riguarda i valori asportati dalla mia abitazione, non posso indicare da chi siano stati asportati: le chiavi dell’abitazione vennero restituite a mia sorella Mongolli Maria con me coabitante; dopo che la casa era stata saccheggiata. Essa stessa si interessò presso la sezione comunista delle Fornaci per averle.

Qualche giorno dopo venne in casa certo Peragallo, che mise dei sigilli sulle porte di alcune camere. I sigilli furono tolti da un agente della questura, certo Galatolo, al quale mio marito si era rivolto.

In seguito mio marito ed io venimmo sottoposti a giudizio di epurazione da un comitato costituitosi tra i piazzisti del Mercato all’ingrosso di frutta e verdura, e ci venne vietato l’esercizio del nostro commercio, che potemmo soltanto riprendere l’anno scorso.

L’asportazione dei valori dalla mia abitazione è stata considerata come danneggiamento per cause di guerra, e dietro nostra domanda in competente Ministero ci ha già corrisposto la somma di L. 150.000.

La mattina del 25 aprile 1945, la fanciulla fu prelevata da tre partigiani in viale Dante Alighieri e condotta nei locali della Scuola Media Guidobono a Legino, un quartiere situato nella periferia ovest di Savona, dove era stato allestito un centro di detenzione per esponenti compromessi con il regime fascista. Dopo alcuni giorni, per la precisione alle 4 del mattino del 30 aprile successivo, Giuseppina Ghersi, fu giustiziata con un colpo di pistola alla nuca insieme ad una tale Teresa Delfino, anch’essa prelevata dalla sua abitazione di Vico Crema 1/1. I loro corpi ormai esanimi furono poi deposti nei pressi del cimitero di Zinola insieme ad altre vittime che avevano condiviso lo stesso loro triste destino.

In seguito, per la precisione il 29 aprile 1949 il padre di Giuseppina, Giovanni Ghersi, presentò un altro esposto al Procuratore della Repubblica di Savona nel quale dichiarava quanto segue:

Il 25 Aprile 1945 alle ore 5 pomeridiane sono arrivati i partigiani e noi stavamo affacciati alla finestra, quando una signora accompagnata da altri di nome Gamarra ci chiese alcol bende e cotone che noi volentieri consegnammo. Il 26 come al solito al mattino alle 6 accompagnato da mia moglie ci recavamo al lavoro come negozianti all’ingrosso di frutta e verdura, in compagnia di un certo Meriggi vetturino di Piazza abitante Via Giuseppe Saredo. Giunti a S. Michele, si presentò un giovane da noi molto conosciuto di nome Debenedetti Giuliano e armato di mitra ci fece fermare (ci fece attendere) telefonando dal garage di Filippo Cuneo (non so dove) lasciandoci a guardia un altro partigiano; poi giunse un signore a noi sconosciuto che loro chiamavano Tenente, e questi non poté dir niente di noi perché ci eravamo sconosciuti. questo Debenedetti insistette che ci accompagnassero al campo di concentramento di Legino; scortati da uno che ci conosceva bene, anzi questo individuo avrebbe voluto che ce la squagliassimo, ma noi tranquilli per evitare guai peggiori non abbiamo acconsentito, questo giovane si fece consegnare il coltello da lavoro che noi giornalmente portiamo. Giunti a Legino nel benedetto campo che fu morte di tanti, si presentò un poco di buono certo Piovano abitante Valletta S. Michele ora operaio viaggiante nelle Ferrovie dello Stato e pretese la consegna delle nostre chiavi di casa e dei nostri magazzini. Non era passata mezz’ora dacché avevano le chiavi che portarono pure al campo una mia cognata vedova e con me abitante, così portando via essa hanno potuto far man bassa su tutto portando via ogni grazia di dio con camionette e carretti. La casa me la spogliarono di quanto tenevo soldi, oro, argento e altro. Il giorno 27 verso le 10 del mattino insistettero con minacce di morte su mia moglie per volere la mia bambina di appena anni 13 e con la paura messaci addosso acconti andarla a prendere dov’era da dei conoscenti in Via Paolo Boselli n.6-8 accompagnata da un brutto ceffo, certo Guerci abitante a Zinola, operaio Stabilimento Ilva e la condussero al campo. Al dopopranzo cominciarono le nostre torture prima prelevarono la bambina, se ne giocarono al pallone, portandola in uno stato comatoso, perdendo sterco tanto che non aveva più forza di chiamare suo papà, poi si sfogarono su mia moglie e malmenandola e percuotendola in modo che ve lo lascio immaginare, poi in cinque cominciarono a battermi me col calcio del moschetto bastoni colpi di mitra sulla testa sulla schiena, tanto è vero che quelli che mi hanno visto mi si presero compassione; tutto ciò finché rivelassi dove tenevo celati oro e soldi; loro non volevano politica perché a detta faccenda non ero interessato ma oro e soldi. Dopo averci conciati per bene io e mia moglie da far pietà verso le 6 mentre veniva l’acqua a catinelle siamo stati accompagnati in Via Niella sede del Comando Partigiano e giunti che fummo davanti a quel Comitato ci hanno detto: contro di voi non c’è niente a carico, ma la nostra guida a cui ci avevano assegnati ci accompagnò al Carcere di S. Agostino. Questo signore si chiama Serra è di Spotorno residente a Legino. Mia moglie rimase in prigione circa 12 giorni e appena uscita si recò nella sede Comunista delle Fornaci affinché le consegnassero chiavi dell’appartamento per potersi stabilire in casa, ma fu tempo perso e insistendo ce le consegnarono verso le 5 di sera; però non era ancora in casa ché un certo Ferro abitante in Via Giacomo Bove in ordine della sezione del P.C.I. delle Fornaci che le ritirò nuovamente scusandosi che non era sua colpa perché ci conosceva. All’indomani mia moglie si recò in Via Montenotte sede del Comando e dietro insistenze le consegnarono le chiavi e cos’ dopo tante vie Crucis hanno potuto entrare in casa sua. Ma sono cadute male perché appena arrivate a casa, arrivò pure un capo Comunista capace di qualunque azione di nome Peragallo abitante in Via Tallone n 9/12, il quale chiuse tutte le camere coi relativi sigilli, prelevandoci di tutto; lasciando libera la cucina e la camera. Il giorno 11 Giugno uscii dal Carcere anch’io senza mai essere stato interrogato e trovandomi fuori di me per la uccisione della bambina e trovando le camere coi sigilli privo di tutto, mi rivolsi alla squadra della Politica della Questura la quale a mezzo di un agente levò i sigilli dalle camere e da ogni ripostiglio. L’intendente di Finanza in seguito ad altra denuncia da me presentata, ha deciso di accogliere favorevolmente e mi ha già corrisposto un acconto di Lire 150.000. L’agente Galatolo lo stesso giorno 11 Giugno dette ordine di consegnarmi galline e conigli di mia proprietà che non so come sia venuta in possesso certa Bruno Catterina Vulgo Vino in Briata esercente Commestibili in Via Tallone 10. Il 12 Giugno mi sono presentato alla suddetta esercente per ritirare conigli e galline, ma essa in malo modo mi rispose che aveva consegnato tutto al Civico Ospedale (ma ciò non fu) ma so che sono finiti in un ristorante per fare un po’ di festa grossa. Sempre il 12 Giugno un po’ fuori di me, trovandomi sull’angolo di Corso Vittorio Veneto e Via Tallone, mi sia fuggita qualche parola di vendetta contro qualcuno dei presenti, magari anche colpevoli, ma tutto finì. Senza lavoro senza soldi era difficile andare avanti e per compassione i miei compagni di lavoro mi assunsero come dirigente al Consorzio Ortofrutticolo e così andava bene, si lavorava, si mangiava, si era contenti. Ma venne 11 Luglio verso mezzanotte sentii fermare una macchina dal portone di casa, poi 5 individui e una donna salirono le scale e batterono l’uscio d’entrata dicendo che c’era un camion di verdura da scaricare , invece erano venuto per prelevarci e farci fare una brutta fine sapendo e conoscendo tutti quelli che ci avevano fatto del male, ma ringraziando Iddio la porta resistette e così siamo ancora vivi e così abbiamo dovuto abbandonare la nostra città, la nostra casa, e senza mezzi e senza lavoro abbiamo trascorso 4 anni di stenti vivendo alla meglio e dobbiamo dire grazie a tanti benefattori. Alla mia bambina hanno fatto sentenza di morte il 30 Aprile 1945 passata la mezzanotte dal comando di Legino e la sua uccisione avvenne alle 4 del mattino il 1° Maggio assieme a certa Delfino Teresa abitante a Savona Vico Crema n 1/1 prelevata il 30 Aprile alla sera nella sua casa. Pare che ne sia autore di questi delitti certo Gatti Pino abitante a Bergeggi.

Come si può notare abbastanza chiaramente sia nell’esposto della madre della giovane vittima che in quello del padre non si fa alcun riferimento ad uno stupro subito dalla figlia, ma si parla soltanto di un pestaggio. Nella deposizione che i coniugi Ghersi rilasciarono il 15 marzo 1950 gli ufficiali di Pubblica Sicurezza presso la Questura di Savona, fornirono finanche le generalità di quattro individui che a loro avviso sarebbero stati i responsabili della morte della figlia. I loro nomi erano i seguenti:

  • Giulio De Benedetti (loro vicino di casa in via Tallone n. 4/6);
  • Francesco Guerci (che avrebbe tratto in arresto la figlia in seguito all’ordine spiccato dal comandante del campo di concentramento di Legino);
  • Giuseppe Gatti (il quale, stando a quanto da loro riferito, sarebbe stato l’autore materiale dell’uccisione di Giuseppina Ghersi);
  •  Francesco Peragallo (che appose i sigilli ad alcune camere della loro abitazione).

Difatti, come si legge in una nota stilata il 26 marzo 1945, dal Corpo Volontari della Libertà, Giuseppina Ghersi figurava già in un elenco di spie o sospette tali «della Questura di Savona (che) mangia all’albergo Piemonte».

L’ormai ottuagenario ex partigiano Aldo Ferrari, nome di battaglia Riri, che all’epoca era vicino di casa della Ghersi, in una testimonianza rilasciata al quotidiano genovese Secolo XIX il 16 settembre 2017, racconta che da

«bambina giocava con noi, ma, tredicenne, si era inimicata tutti. Legata alle camicie nere, frequentava l’albergo Nazionale, al tempo in mano dei fascisti. La venivano a prendere con le loro grosse vetture e trascorreva le serate in loro compagnia. Era armata e si divertiva a terrorizzare le altre donne. Quando sentiva qualche signora che, per le strade, si lamentava del regime, si avvicinava minacciando di spifferare tutto alle camicie nere. Le donne la temevano. La sua famiglia, invece, la pensava come lei ed era altrettanto legata ai fascisti. Era una spia: denunciava, alle camicie nere, chi era partigiano o chi nascondeva in casa giovani oppositori al regime. Alle Fornaci, tutti sapevano. Dopo il 25 Aprile continuava a girare con la pistola. Qualcuno l’avvertì dicendo che l’avrebbe dovuta levare, invece niente: ostentava lo stesso atteggiamento, sempre armata. Accanto a lei vivevano altre due ragazze, tutte amiche delle camicie nere. Ma a loro non è accaduto nulla. Nessuna di loro si era spinta a quei punti. Le spiate compiute da Pinuccia, che sono costate care ai partigiani fornacini, avevano risvegliato sentimenti di vendetta. Che in quel momento hanno preso il sopravvento”.

(Mario De Fazio, Savona, nuovi testimoni riaccendono il caso Ghersi, la tredicenne uccisa dai partigiani,Secolo XIX”, 16 settembre 2017)

Certo la guerra impone inevitabilmente delle scelte forti, anche molto dolorose e crudeli, ma qui stiamo parlando di una bambina di 13 anni che non credo potesse avere già ben chiara l’idea di cosa fosse davvero l’ideologia fascista, assorbita magari, più o meno inconsapevolmente dall’ambiente familiare. Ma anche in questo caso la colpa dei padri non deve ricadere sui figli! La Guerra di Liberazione dall’orribile dittatura nazifascista, purtroppo, conobbe anche degli eccessi come questo; negarli, o più semplicemente stigmatizzarli ricorrendo ad improbabili sofismi dialettici per relegarli alla damnatio memoriae, beh credo che proprio che non faccia onore a nessuno, tantomeno a tutti coloro i quali credendo fermamente nei loro alti ideali di Libertà e Giustizia, hanno combattuto il regime mussoliniano a repentaglio della loro vita per consentire ai propri figli di poter vivere liberamente in un Paese democratico, finalmente affrancato dalla dittatura…

Ad ogni modo sarebbe auspicabile che questi temi, proprio per la loro intrinseca delicatezza e complessità, siano affidati all’indagine storiografica e non strumentalizzati, come ahimè spesso accade, per bieco calcolo politico e stucchevole nonché squallida provocazione…

Intelligenti pauca!

Esposto di Giovanni Ghersi del 26 settembre 1949

© Giovanni Preziosi, 2017
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