Privacy Policy “IL RIFUGIO SEGRETO DEI GERARCHI”. Il nuovo libro di Giovanni Preziosi – History Files
 

Nuova pubblicazione“IL RIFUGIO SEGRETO DEI GERARCHI”. Il nuovo libro di Giovanni Preziosi

Storia e documenti delle reti per l'espatrio clandestino dei fascisti.
historyfilesvenerdì, 3 Febbraio 2017 ore 9:09:4949786 min
  • Copertina flessibile: 344 pagine
  •  20,28
  • Editore: CreateSpace Independent Publishing Platform; 1 edizione (23 febbraio 2017)
  • Lingua: Italiano
  • ISBN-10: 1532719485
  • ISBN-13: 978-1532719486Chi fosse interessato all’acquisto può farlo collegandosi a questi links:
Versione cartacea Copertina flessibile

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Dopo il lusinghiero consenso riscosso dal volume su Giovanni Palatucci dal titolo: “La rete segreta di Palatucci: I fatti, i retroscena, le testimonianze e i documenti inediti che smentiscono l’accusa di collaborazionismo con i nazisti” (la versione cartacea può essere acquistata on-line tramite la piattaforma AMAZON al seguente link:https://www.amazon.it/rete-segreta-Palatucci-testimonianze-collaborazionismo/dp/1519611226/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr= ),  vi presento la nuova edizione – doverosamente riveduta ed ampliata – della seconda parte del libro che scrissi nel 2006 intitolata: “Il rifugio segreto dei gerarchi: Storia e documenti delle reti per l’espatrio clandestino dei fascisti”, che ho appena dato alle stampe sulla piattaforma di CreateSpaceIndependent Publishing Platform e Amazon. 

Questo volume, frutto di alcuni anni di intenso lavoro, trae spunto da una paziente e minuziosa ricerca condotta a tutto campo in numerosi archivi – statali, privati ed ecclesiastici – valorizzando soprattutto i fondi documentari di questi ultimi, in genere ignorati o comunque trascurati dalla storiografia. Esso non intende essere in alcun modo una sorta di pamphlet scandalistico o provocatorio ma, al contrario di un’opera rigorosa e documentata che, attraverso l’utilizzo di importanti fonti archivistiche, perlopiù inedite, nonché la copiosa documentazione cartacea di alcune personalità religiose che rivestirono un ruolo cruciale in questa vicenda, come il Procuratore Generale dei Salesiani presso la Santa Sede, padre Francesco Tomasetti – mira a ricostruire, nel modo più verosimile possibile, quella rete clandestina che agevolò prima l’occultamento e poi la fuga di alcuni gerarchi fascisti.

In questo contesto estremamente variegato, non mancarono, tuttavia, anche episodi di inquietante complicità, di cui si resero protagonisti – in particolare – il vescovo austriaco Alois Hudal e il sacerdote filo-ustascia Krunoslav Stjepan Draganović, i quali furono gli autentici deus ex machina della cosiddetta “via dei conventi” mediante l’allestimento di sofisticate reti di fuga che permisero a molti fascisti e nazisti di espatriare in paesi piuttosto compiacenti e di sfuggire, in tal modo, alle pesanti condanne che pendevano sul loro capo.

Questa vastissima mole documentaria – sagacemente ordinata e interpretata – ha consentito a chi scrive di dipanare la complessa trama clandestina che consentì prima l’occultamento e poi l’espatrio dei più eminenti gerarchi fascisti del calibro di Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, Carlo Scorza, Carlo Alberto Biggini ed Edmondo Rossoni (quest’ultimo rifugito presso il Santuario benedettino di Montevergine).

Di analoga protezione fruirono anche alcuni ex gerarchi nazisti e soprattutto gli esponenti del regime ustaša croato, contraddistintosi per le feroci operazioni di “pulizia etnica” ai danni di ebrei e serbi ortodossi. Lo stesso capo dello stato croato, il poglavnik Ante Pavelić, fu accolto a Roma nella primavera del 1946, dopodichè, grazie ai buoni uffici proprio di padre Krunoslav Draganović, sotto mentite spoglie, riuscì ad imbarcarsi sul piroscafo “Sestriere” battente bandiera italiana, che salpò dal porto di Genova l’11 ottobre 1948 diretto a Buenos Aires, dove trascorse indisturbato il resto dei suoi giorni sotto la protezione di Juan Domingo Perón.

Ripercorrendo a ritroso, dunque, il tragitto seguito da questi personaggi durante i loro anni trascorsi in clandestinità l’Autore, grazie all’ausilio di importanti fonti inedite è riuscito a realizzare, con dovizia di particolari, una suggestiva ricostruzione delle principali vicende che li hanno riguardati, passando in rassegna persino le varie reti di assistenza di cui beneficiarono ed i rifugi dove rimasero nascosti fino a quando il pericolo era ormai scampato. A quel punto, infatti, tutti gli alti papaveri si resero subito conto che il loro tempo volgeva ormai al termine e, perciò, pensarono bene di correre rapidamente ai ripari, cercando di non dare troppo nell’occhio e sfuggire così ai loro aguzzini che, ormai, già erano sulle loro tracce per assicurarli alla giustizia.

Ecco qui di seguito la prefazione di questo volume realizzata dal Professore Carlo Felice Casula – Ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre – ed un breve stralcio di un capitolo.


PREFAZIONEdel Prof. Carlo Felice Casula

Con l’espressione Ratlines del glossario marinaresco inglese s’indicavano le sartie lungo le quali i topi si arrampicavano rapidamente per trovare provvisorio scampo ai frequenti naufragi dei velieri. Nell’immediato secondo dopoguerra i servizi segreti americani cominciarono a usare metaforicamente l’espressione Ratline per indicare le reti di fuga per l’espatrio clandestino criminali nazisti dalla Germania occupata, con destinazione privilegiata per il Sud America e con appoggio diretto-indiretto di personalità e istituzioni cattoliche.

Reti di fuga percorse anche da esponenti, tristamente noti, di regimi collaborazionisti, quali la Francia di Vichy e l’autoproclamato Stato indipendente di Croazia e da importanti gerarchi del Fascismo italiano.

Il fenomeno ha avuto negli ultimi decenni un’attenzione mediatica molto forte e persistente, soprattutto dopo la pubblicazione del fortunato libro, Ratlines: How the Vatican’s Nazi Networks Betrayed Western Intelligence to the Soviets (Mandarin 1991)[1] di due giornalisti, Mark Aarons e John Loftus, australiano il primo e americano il secondo.

Il libro è stato tradotto in molte lingue; nell’edizione italiana (New Compton, 1993), il sottotitolo, lunghissimo, è quasi un abstract:  gli archivi dei servizi segreti americani svelano il coinvolgimento di una rete clandestina di destra all’interno del Vaticano, per favorire, in nome dell’anticomunismo la fuga di criminali di guerra nazisti, destinati a diventare agenti segreti dei paesi occidentali.

Per l’inchiesta di Mark Aarons e John Loftus ha mostrato apprezzamento anche l’autorevole storico inglese John Pollard nel suo libro, The Papacy in the Age of Totalitarianism, 1914-1958 (Oxford University Press, 2014),[2] pubblicato nella prestigiosa collana Oxford History of the Christian Church.

Lo storico Tedesco Heinz Schneppen, nel libro Odessa und das Vierte Reich: Mythen der Zeitgeschichte (Metropol, 2007),[3] come da traduzione del titolo in italiano, sostiene che le Ratlines e tra queste, quella denominata Odessa, presentate come un’organizzazione internazionale, unitaria, coesa e centralmente diretta dal Vaticano, e/o appoggiata dalla Croce Rossa, sia un “mito della storia contemporanea”.

Prescindendo dal fatto, acclarato, che in non poche fughe di tedeschi depositari d’informazioni o di conoscenze che si aveva timore finissero in campo avverso, furono coinvolti i servizi segreti degli Usa e dell’Urss, si sarebbe trattato, quindi di operazioni slegate tra di loro con partecipazione-complicità, non sempre consapevole, di uomini di Chiesa.

Giovanni Preziosi in questo suo saggio storico si muove in questa linea:

“Del resto, come si evince anche da alcuni studi recenti e da svariati documenti della C.I.A. da qualche anno desegretati e messi a disposizione degli studiosi sembra che, in qualche circostanza, sia il vescovo austriaco filonazista Alois Hudal – vero deus ex machina di quella che fu definita in codice la via dei conventi – sia il sacerdote croato padre Krunoslav Stjepan Draganović, fornirono il loro aiuto per agevolare la fuga di alcuni personaggi di spicco nazisti e ustascia” (p. 68).

Giovanni Preziosi giornalista con la formazione e il mestiere dello storico è condirettore della rivista telematica Christianitas di Storia, Pensiero e Cultura del Cristianesimo ed è stato anche un apprezzato collaboratore delle pagine culturali de L’Osservatore Romano e di Vatican Insider, ha già realizzato diverse pubblicazioni riguardanti questo filone storiografico, tra le quali spicca La rete segreta di Palatucci. I fatti, i retroscena, le testimonianze e i documenti inediti che smentiscono l’accusa di collaborazionismo con i nazisti (2015).[4]

In questo suo nuovo lavoro nel contesto tematico, discusso e controverso, delle cosiddette Ratlines, prende specificamente in esame l’espatrio clandestino dei gerarchi fascisti, con grande rigore critico e onestà intellettuale e, soprattutto, con un lungo, paziente e proficuo scavo archivistico: Archivio Centrale dello Stato, Archivio Diocesano di Montevergine, Archivio Salesiano centrale Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori-Fondo Giuseppe Bottai, Archivio Storico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana-Fondo Luigi Federzoni, per citarne del lungo elenco solo alcuni.

I gerarchi fascisti dei quali si ricostruisce, a partire dal crollo del regime e, soprattutto, dopo la Liberazione e la fine della guerra, la difficile clandestinità e la fuga-rifugio all’estero, sono Edmondo Rossoni, Luigi Federzoni, Giuseppe Bottai, Carlo Alberto Biggini e Carlo Sforza.

Di tutti è proposto preliminarmente un essenziale profilo biografico che tiene conto delle acquisizioni della vastissima storiografia e pubblicistica sul Fascismo e sui suoi esponenti.

Per quanto concerne i “fascisti in fuga” succitati, nei sottotitoli dei diversi capitoli loro dedicati, s’indicano con sintesi estrema le loro peculiari connotazioni e anche il loro ruolo giocato nel Ventennio: Rossoni il “sindacalista”, Federzoni “nazionalista”, Bottai “fascista critico”, Biggini “eminenza grigia del regime”, Sforza “ultimo segretario del Partito nazionale fascista”. Quasi a evidenziare che essi, non solo perché non travolti dalla deriva tragica e sanguinosa della Repubblica sociale italiana, hanno costituito delle componenti importanti dell’esperienza del Fascismo. Non sono stati in grado, tuttavia, non solo di realizzare, come nel caso di Federzoni, una successione autoritaria-moderata al regime mussoliniano, come, in fondo, si auspicava, dopo il luglio del 1943, nelle stanze dei Sacri Palazzi, ma, ancor meno, a costituire dei punti di riferimento, all’estero e in Italia, nella politica dell’Italia repubblicana.

Per quanto concerne la loro protezione e la loro messa in salvo, Preziosi documenta senza reticenze, con documenti e testimonianze, il ruolo svolto da personalità e istituzioni religiose, in particolare salesiane, francescane e benedettine.

Sono sempre evitate critiche acrimoniose, così come valutazioni giustificazioniste. Preziosi non è toccato dal diffuso, ma quanto mai infondato, pregiudizio sulla Chiesa cattolica, istituzione compatta e gerarchicamente ordinata, nella quale nulla accade che non sia per emanazione dal Papa e/o dalla Segreteria di Stato. Pregiudizio che ha portato a ritenere che, particolarmente in ambito giornalistico, anche l’allora monsignor Giovanni Battista Montini, responsabile della Sezione degli Affari Ecclesiasti Ordinari in Segreteria di Stato, fosse ispiratore o complice dell’affaire delle fughe dei gerarchi fascisti. Eppure è quasi impossibile dubitare delle sue profonde convinzioni antifasciste, a partire dalla sua formazione culturale e familiare, come ha magistralmente ricostruito Fulvio De Giorgi nel suo recente libro Monsignor Montini. Chiesa cattolica e scontri di civiltà nella prima metà del Novecento (Il Mulino, 2012).[5]

Rinviando, per concludere, al mio volume Domenico Tardini. L’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre (Studium, 1988),[6] in questa complessa e controversa vicenda, rigorosamente ricostruita e documentata da Preziosi, al di là di persistenti simpatie e connivenze fasciste, pur presenti in alcuni ambienti ecclesiastici, l’atteggiamento complessivo della Santa Sede risulta perfettamente in linea di continuità con la strategia della diplomazia vaticana nella Seconda Guerra Mondiale: “Difendere i vinti e tutelare i deboli”.

Roma, 26 gennaio 2017

Prof. Carlo Felice Casula

Ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre


Note

[1] M. Aarons – J. Loftus, Ratlines: How the Vatican’s Nazi Networks Betrayed Western Intelligence to the Soviets, Mandarin, New edition edizione 3 ottobre 1991.

[2] J. Pollard, The Papacy in the Age of Totalitarianism, 1914-1958, Series: Oxford History of the Christian Church, Oxford University Press, 2014.

[3] H. Schneppen, Odessa und das Vierte Reich: Mythen der Zeitgeschichte, Metropol-Verlag; Auflage: 1 (30 Januar 2007).

[4] G. Preziosi, La rete segreta di Palatucci. I fatti, i retroscena, le testimonianze e i documenti inediti che smentiscono l’accusa di collaborazionismo con i nazisti, CreateSpace Independent Publishing Platform; 1 edizione (3 dicembre 2015), pp. 242. Aquistabile on-line tramite la piattaforma Amazon al seguente link: https://www.amazon.it/rete-segreta-Palatucci-testimonianze-collaborazionismo/dp/1519611226/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr=

[5] Cfr. F. De Giorgi, Mons. Montini. Chiesa cattolica e scontri di civiltà nella prima metà del Novecento, Il Mulino, Bologna 2012.

[6] C.F. Casula, Domenico Tardini. L’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, Studium, Roma 1988.

(Pagg. 34-36)


“SI SALVI CHI PUÒ…”

  1. Stille Hilfe e il Movimento italiano femminile “Fede e famiglia” nell’esfiltrazione clandestina degli ex gerarchi nazisti e fascisti.

Nel frattempo, considerata la piega negativa che stavano prendendo gli eventi, anche alcuni ex gerarchi fascisti e nazisti, per sfuggire ai loro aguzzini, riuscirono a trovare dapprima un provvidenziale rifugio in vari monasteri, conventi e collegi ecclesiastici dopodiché, usufruendo molto probabilmente delle ben note ratlines, riuscirono ad espatriare oltreoceano sotto mentite spoglie in paesi piuttosto compiacenti. Del resto queste “reti di fuga” si rivelarono davvero molto efficaci in quanto disponevano della quantità sufficiente di denaro e di appoggi logistici tali da garantire un adeguato funzionamento. Fin dal 1936 il Terzo Reich aveva individuato nel Sud-America la terra prediletta dove rifugiarsi in caso di pericolo.

Proprio per questo motivo da quel momento in poi s’intensificarono, nel più stretto riserbo, una serie di missioni segrete esplorative che si conclusero con quella condotta dalla marina del Reich quando ormai la guerra volgeva al termine, a cui fu dato il nome in codice di Oltremare Sud dall’ammiraglio Karl Dönitz, il fedele gerarca che Hitler aveva designato come suo successore. Fu, infatti, proprio lui che, ai principi di maggio del 1945, ordinò a cinque U-Boot dell’ultima generazione, tutti con lo stesso numero di matricola U-533, con il tacito consenso dell’ammiragliato britannico, di salpare dalla base norvegese di Bergen per fare rotta verso il Sud-America con un carico speciale: armi, denaro e per l’appunto gerarchi nazisti.[1]

Uno di questi sottomarini, tuttavia, fu intercettato nella baia di New York nel mese di giugno dagli americani che scoprirono un carico di uranio; un altro, invece, si scontrò con l’incrociatore brasiliano Bahia che lo affondò mietendo ben 336 vittime, mentre una terza imbarcazione, il 15 ottobre 1945, riuscì ad approdare sulle coste argentine di Mar del Plata, a Buenos Aires, coperti dall’Armada argentina in complicità con gli ammiragli di Gran Bretagna e Stati Uniti.[2]

Questo, in realtà, è soltanto l’inizio perché, in seguito, altri gerachi nazisti e fascisti approderanno in Sud america seguendo un altro itinerario, sotto mentite spoglie, con l’ausilio di salvacondotti e passaporti generosamente procurati dalla Croce Rossa Internazionale e da alcuni sacerdoti piuttosto compiacenti. Il porto di Genova rappresentò in quegli anni il centro di smistamento e d’imbarco. È noto, ormai, che all’indomani della caduta del regime fascista scattò l’operazione per agevolare l’esfiltrazione[3] di alcuni dei più famigerati gerarchi nazisti e fascisti i quali, per non destare alcun sospetto, spesso passarono l’Atlantico travestiti da prete e muniti di adeguati passaporti di copertura col tacito consenso, dapprima dell’Office of Strategic Service[4] e poi del Secret Service Unity (organismo di transizione tra l’O.S.S. e la C.I.A.) diretto a Roma dal capitano James Jesus Angleton.[5] In questa sofisticata operazione di esfiltrazione, dunque, fu coinvolta anche l’intelligence statunitense, che si adoperò per impedire la cattura di tutti quei personaggi legati a filo doppio con i regimi dittatoriali nazista, fascista e ustascia – evidentemente allo scopo di poter utilizzare gli importanti segreti politico-militari di cui erano al corrente – mettendoli nelle condizioni di poter sfuggire ai propri aguzzini, mediante l’ausilio di una rete ben collaudata chiamata per l’appunto la via dei conventi.

Di questa sia pur discreta ed indiretta protezione fruirono, infatti, anche alcuni ex gerarchi nazisti e soprattutto gli esponenti del regime ustascia croato, contraddistintosi per le feroci operazioni di “pulizia etnica” ai danni di ebrei e serbi ortodossi. Lo stesso capo dello stato croato, il poglavnik Ante Pavelić, dopo varie peregrinazioni, nella primavera del 1946, fu accolto a Roma fino a che, grazie ai buoni uffici di padre Krunoslav Draganović, munito di passaporto falso rilasciato dalla Croce Rossa Internazionale, nell’ottobre 1948 riuscì ad imbarcarsi su un piroscafo battente bandiera italiana che da Genova lo condusse a Buenos Aires, dove continuò a vivere indisturbato sotto la protezione di Perón.[6]


Note

[1] Per ulteriori approfondimenti su questa vicenda si rimanda ai seguenti studi:  J. Salinas, ‎C. De Napoli, Oltremare sud. La fuga in sommergibile di più di 50 gerarchi nazisti, Tropea, 2007; G. Caldiron, I segreti del quarto Reich. La fuga dei criminali nazisti e la rete internazionale che li ha protetti, Newton Compton, 2016.

[2] M. Dolcetta, Mistero Hitler, in “L’Unità”, 30 aprile 2005, p. 25.

[3] Nel gergo dei servizi segreti sta a significare la messa in fuga di qualcuno oltre frontiera. Il Sostituto della Segreteria di Stato di Sua Santità, mons. Giovanni Battista Montini, aveva infatti sotto la sua supervisione l’ufficio che rilasciava i documenti per l’espatrio dei rifugiati.

[4] Questa struttura fu sciolta ufficialmente dal presidente Truman il 20 settembre 1945 ed al suo posto fu istituita la Strategic Services Unit che era sotto il controllo del Dipartimento della Guerra. Tuttavia poco dopo anche la S.S.U. fu sciolta e dalle sue ceneri nacque l’attuale C.I.A. Per un ulteriore approfondimento si rimanda alla seguente bibliografia: M. Corvo, The OSS in Italy. 1942-1945. A Personal Memoir, Praeger Publishers, New York. 1989; F. Bradley Smith, The Shadow Warriors: O.S.S. and the Origins of the C.I.A., Basic Books, Inc., New York 1983; R.H. Smith, The Secret History of America’s First Central Intelligence Agency, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London 1972; G.C. Chalou, The Secrets War: The Office of Strategic Services in World War II, National Archives and Records Administration, Washington, D.C. 1992; D.K.E. Bruce, OSS Against the Reich: The World War II Diaries of Colonel David K. E. Bruce, Nelson Lankford, Kent State University Press, Ohio 1991; H. Montgomery Hyde, Secret Intelligence Agent: British Espionage in America and the Creation of the OSS, St. Martin’s Press, New York 1982; W. Casey, The Secret War against Hitler, Washington, D.C., Regnery, Gateway 1988; J.E. Persico, Piercing the Reich: The Penetration of Nazi Germany by American Secret Agents During World War II, Viking Press, New York 1979; J.H. Waller, The Unseen War in Europe: Espionage and Conspiracy in the Second World War, Random House, New York 1996; N.H. Petersen, From Hitler’s Doorstep. The Wartime Intelligence Reports of Allen Dulles, 1942-1945, The Pennsylvania State University Press, University Park, Pennsylvania 1996; B.M. Katz, Foreign Intelligence: Research and Analysis in the Office of Strategic Services 1942-1945, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 1989; A.W. Dulles, The Craft of Intelligence, Harper & Row, New York 1963; E. Hymoff, The OSS in World War II, Richardson & Steirman, New York 1986.

[5] Dopo la liberazione di Roma Angleton fu inviato in Italia per assumere il comando della Strategic Services Unit, meglio nota come X-2 Branch, ovverosia quella sezione più segreta e indipendente dell’O.S.S. prima e del S.S.U. poi, che si occupava delle cosiddette “Special Operations” con compiti di sabotaggio, legami con i gruppi clandestini all’estero, finanziamento e assistenza a quei movimenti eversivi e gruppi politici che potevano ritornare utili agli interessi americani per operazioni di controspionaggio e infiltrazioni nei servizi segreti nemici (cfr. in merito A. Cipriani – G. Cipriani, Sovranità limitata. Storia dell’eversione atlantica in Italia, Edizioni Associate, Roma 1991, p. 28; R. Faenza – M. Fini, Gli americani in Italia, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 3-4). Il quartier generale dell’O.S.S. fu installato in via Sicilia, mentre la sede operativa della X-2 fu sistemata presso villa Errazuriz, in prossimità di via Quintino Sella. Al termine della sua missione in Italia, nel settembre del 1947 Angleton fece ritorno negli Stati Uniti dove, sei anni dopo ricevette l’incarico di guidare il servizio di controspionaggio della C.I.A. Tuttavia, nel 1974, fu costretto a rassegnare le dimissioni dopo essere stato travolto dallo scandalo Watergate. Angleton è morto nel 1987 negli Stati Uniti.

[6] Cfr. l’articolo di A. Casazza, Un prete croato all’ombra di Siri. Carlo Petranovic e la grande fuga verso l’Argentina, in “Il Secolo XIX”, 1 agosto 2003, p. 5.

(…)

(Pagg. 61-63)


  1. Il ruolo svolto da mons. Alois Hudal e da padre Krunoslav S. Draganović tratteggiato nei dossiers dell’intelligence statunitense.

Del resto, come si evince anche da alcuni studi recenti e da svariati documenti della C.I.A. da qualche anno desegretati e messi a disposizione degli studiosi sembra che, in qualche circostanza, sia il vescovo austriaco filonazista Alois Hudal – vero deus ex machina di quella che fu definita in codice la via dei conventi – sia il sacerdote croato padre Krunoslav Stjepan Draganović, fornirono il loro aiuto per agevolare la fuga di alcuni personaggi di spicco nazisti e ustascia.[1] Mons. Alois Hudal, nacque nella città austriaca di Graz il 31 maggio 1885. Terminati i suoi studi a Roma presso il Pontificio Istituto Biblico, nel 1919 ottenne l’abilitazione ad insegnare nell’Università di Graz come professore di Antico Testamento e Lingue orientali. Quindi, nel 1923, si trasferì a Roma divenendo rettore del Pontificio Collegio Teutonico di Santa Maria dell’Anima, di cui l’allora card. Eugenio Pacelli era il Protettore. In seguito, in virtù dei buoni uffici di quest’ultimo, divenne finanche consultore del S. Uffizio, funzione che esercitò dal 1929 fino alla sua morte. Alcuni anni dopo, per la precisione nel giugno del 1933, dopo l’ascesa al soglio pontificio del card. Eugenio Pacelli col nome di Pio XII, fu elevato proprio da quest’ultimo al rango di vescovo titolare di Ela. Inoltre, merita di essere sottolineato il ruolo determinante che mons. Hudal svolse nell’aprile del 1933, in occasione dei negozati con Franz von Papen, il vice-cancelliere di Hitler, nella cornice dei lavori preparatori per la stipulazione dei concordati tra la Santa Sede e i governi austriaco e tedesco.

Il Pontificio Collegio Teutonico di S. Maria dell’Anima, uno dei tre seminari per preti tedeschi a Roma, nel dopoguerra divenne un centro nevralgico per l’espatrio clandestino dei nazisti fino al 1947 allorché, in un dettagliato rapporto stilato dall’agente Vincent La Vista del Counter Intelligence Corps, il controspionaggio americano, per il Dipartimento di Stato americano, fu adombrato il coinvolgimento del prelato austriaco in questa vicenda che, naturalmente, sollevò subito un enorme vespaio di polemiche al punto da costringerlo, suo malgrado, a rassegnare le dimissioni dalla carica di rettore che aveva ricoperto fino a quel momento.[2]

Tuttavia ci vollero quasi quattro anni per nominare il suo sostituto, a cui fu affidata la direzione del Collegio di S. Maria dell’Anima. Mons. Hudal, infatti, rimase a Roma fino alla sua morte, che sopraggiunse il 13 maggio 1963 nella clinica “Villa Stuart” a Grottaferrata.[3]

L’opera di salvataggio messa in atto da mons. Hudal a beneficio dei vari gerarchi nazisti finiti inevitabilmente nell’occhio del ciclone a causa dei loro misfatti, si può far risalire approssimativamente al 1944, allorché l’ineffabile presule austriaco aveva fondato l’Österreich Komitee col preciso intento di venire incontro alle esigenze dei tanti poveri austriaci che allora risiedevano a Roma. Inoltre, nell’immediato dopoguerra fu incaricato di dirigere perfino il Comitato austriaco della Pontificia Commissione di Assistenza per i rifugiati (Österreichische Abteilung), prodigandosi – spesso, a dire il vero, con fin troppo zelo – per soccorrere tutti i rifugiati di lingua tedesca, soprattutto quelli che si trovavano nei campi di Fraschette.

Difatti, il 23 agosto 1944, col pretesto di svolgere azioni caritative a beneficio dei detenuti, era stato inviato in visita alle decine di migliaia di prigionieri di guerra e internati civili di lingua tedesca che allora gremivano i vari campi italiani (P.O.W.) per portare «un’assistenza religiosa».[4]

Di conseguenza, il 2 dicembre successivo, dopo aver ottenuto l’investitura ufficiale da parte della S. Sede di direttore del Comitato che si occupava dei tedeschi detenuti in Italia, il presule austriaco ebbe carta bianca per poter visitare indisturbato i prigionieri di guerra per portare una parola di conforto e, allo stesso tempo, approfittando della situazione favorevole, fornire loro anche dei documenti falsi di copertura, in modo tale da metterli nelle condizioni di poter lasciare l’Italia e rifarsi una nuova vita altrove. Del resto, bisogna osservare che ad alimentare questo trend contribuì in modo rilevante anche il clima politico postbellico che non lasciava presagire nulla di buono per tutti coloro i quali erano legati a filo doppio col decaduto regime fascista.[5] Come è emerso dalla ricerca promossa alcuni anni or sono dalla Comisión para el Esclarecimiento de las Actividades del Nazismo en la Argentina (CEANA) risulta che il numero complessivo – accuratamente censito – dei criminali di guerra nazisti e dei loro sodali fascisti sbarcati sul continente sud americano ammontava a 180 unità.[6] Difatti, come ha fatto osservare Federica Bertagna, una persistente tradizione pubblicistica vede infatti l’Argentina e buona parte delle Americhe letteralmente invase da almeno trenta, se non sessanta mila nazisti in fuga. La tesi nasce dalla confusione tra piani distinti. Innanzitutto, mescola iscritti al partito nazista (o membri di movimenti collaborazionisti), criminali di guerra ed emigranti provenienti dall’Europa centro-orientale dopo il 1945. Le partenze da quest’area sconvolta dal conflitto sono state consistenti, sebbene inferiori alle cifre appena ricordate, però non tutti coloro che varcarono l’oceano appartenevano ad organizzazioni naziste e tra gli esuli i responsabili di crimini di guerra erano pochissimi.[7]

Difatti le stime effettuate dallo studioso dell’America Latina Holger M. Meding hanno fatto registrare appena trenta o quarantamila tedeschi che si trasferirono in Argentina, tra i quali viene ipotizzato che ci potessero essere tra i 300 e gli 800 nazisti, equivalenti, dunque, soltanto all’1-2% del totale, tra i quali si annoveravano 50 criminali di guerra tra i quali spiccavano Fridolin Guth –ex membro della polizia politica tedesca in Francia –, Gerhard Bohne – il famigerato capo del Dipartimento preposto all’attuazione del programma di eutanasia Aktion T4, che decretò la soppressione sistematica di oltre 70.000 persone di persone con disabilità fisiche e mentali –, Eduard Roschmann – passato tristemente alla storia come il macellaio di Riga – ed il tenente colonnello Friedrich Josef Rauch, responsabile della sicurezza personale del Führer, in seguito accusato di essere coinvolto nella cessione dell’oro nazista.[8]

Fatta eccezione per quest’ultimo, tutti gli altri sono giunti in Argentina, tra il 1948 e il 1950, a bordo di una nave proveniente da Genova, grazie ad un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa Internazionale.[9] Secondo fonti ufficiali, tra il 1946 e il 1955 approdarono in Argentina circa 66.000 persone di origini tedesche.[10] Tuttavia, bisogna anche considerare che l’approssimazione di questi dati scaturisce dal fatto che, in molti casi, i membri delle SS sono entrati nel paese latino-americano sotto mentite spoglie e perfino con una falsa nazionalità. Molti, infatti, che giungevano sul territorio argentino non mostrarono la loro vera identità, considerato che in molti casi il nome, la loro origine e la nazionalità erano stati preventivamente falsificati.

Tra le numerose carte custodite nell’archivio privato di mons. Hudal, tra le altre, spicca anche una copia del manifesto dell’International Association of Foreign Refugees in Italy, un’organizzazione d’ispirazione cattolica presieduta dall’avvocato romeno Eusebio Micol, sorta nel marzo del 1948 a Roma in via dei Sabini al civico 7, che fin dalla sua nascita aveva come scopo quello di tutelare «le centinaia di migliaia di profughi stranieri che si trovano in Italia».[11]

In perfetta sinergia con altre istituzioni internazionali quali l’International Refugees Organization (IRO), l’American Joint Distribution Committee e la Pontificia Commissione di Assistenza, ed invitava tutte le persone interessate a una riunione che si doveva tenere il successivo 2 maggio presso la sala Borromini in piazza della Chiesa Nuova. Dalle carte custodite nell’archivio del Collegio di S. Maria dell’Anima si evince, inoltre, che mons. Hudal per i tedeschi e il sacerdote croato Krunoslav Draganović per gli ex ustaša in quel periodo si preoccuparono di preparare varie lettere di presentazione a beneficio di tutti coloro che ricorrevano al loro provvidenziale aiuto per procurarsi i passaporti della Croce Rossa, facendo leva anche sulla loro fitta rete di conoscenze nell’ambito consolare e diplomatico dei paesi sudamericani per sollecitare i necessari visti.[12]

Tuttavia l’Argentina, il Venezuela e la Colombia non furono le sole mete preferite delle persone che si rivolsero a lui per coronare questa loro aspirazione. Scorrendo, infatti, questa fitta corrispondenza si scopre che furono inoltrate anche domande di visti o di aiuti per la Bolivia, il Brasile, il Cile, la Costa Rica, il Messico, il Paraguay, il Perù e l’Uruguay.[13]


Note

[1] Cfr. in merito il dossier del Counter Intelligence Corps (C.I.C.) su mons. Giovanni Battista Montini contenuto in: N.A.R.A., “Montini Giovanni”, file n. XE204085, Box n. 444, Deposito di documenti investigativi dell’esercito americano, Inscom Dossier, oggetto: “Giovanni Montini”, nota del 30 luglio 1946. Cfr. al riguardo anche M. Aarons e J. Loftus, Ratlines,  cit., pp. 67, 94, 125 e sgg.; Cfr. anche il saggio di M. Sanfilippo, Los Papeles de Hudal como fuente para la historia de la migración de Alemanes y Nazis después de la segunda guerra mundial, cit., pp. 185-210. Inoltre su questo argomento vedi anche M.G. Pace, La via dei demoni. La fuga in Sudamerica dei criminali nazisti: segreti, complicità, silenzi, op.cit.; U. Goñi, Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l’Argentina di Perón, cit., pp. 263 e sgg.; Storia illustrata, supplemento al n. 186 del 1973, intitolato La caccia ai criminali nazisti. Decisamente contrario a questa interpretazone della “leggenda nera”, che vedeva la Chiesa cattolica in primo piano nel sistema di copertura e protezione dei criminali di guerra nazisti in fuga – senza escludere, però, “iniziative a titolo personale” di alcuni religiosi – si è mostrato recentemente Pierluigi Guiducci nel suo volume Oltre la leggenda nera. Il Vaticano e la fuga dei criminali nazisti, Ugo Mursia Editore, Milano 2015.

[2] Difatti, già dal 24 gennaio 1952, mons. Hudal era stato messo in guardia dall’arcivescovo di Salisburgo Andreas Rohracher, il quale aveva comunicato al rettore del collegio “Germanico” che la S. Sede, ormai, lo riteneva troppo compromesso e perciò aveva deciso di rimuoverlo.

[3] La vicenda relativa all’allestimento delle ratlines da parte del vescovo austriaco mons. Alois Hudal e del prete filo-ustascia Krunoslav Stjepan Draganović sono fin troppo note per richiedere un’ulteriore riflessione, pertanto per un maggiore approfondimento si consiglia di consultare la seguente bibliografia: M. Sanfilippo, Los Papeles de Hudal como fuente para la historia de la migración de Alemanes y Nazis después de la segunda guerra mundial, in “Estudios Migratorios Latinoamericanos”, 1999, Vol. 14, n. 43, pp. 185-210 (Ib., Comisión para el Esclarecimiento de las Actividades del Nazismo en la Argentina, d’ora in poi C.E.A.N.A., Final Report, 1999), il quale ha utilizzato le carte del vescovo austriaco conservate nell’archivio del Pontificio Collegio Teutonico di Santa Maria dell’Anima di Roma. La Comisión para el Esclarecimiento de las Actividades del Nazismo en la Argentina è sorta nel 1997 ed i risultati delle ricerche effettuate, presentati in due Progress Reports ed un Final Report, adesso si possono consultare anche on-line al seguente indirizzo: http://www.ceana.org.ar. U. Goñi, Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l’Argentina di Perón, Garzanti, Milano 2003; S. Olivastri, Il Vaticano e la seconda guerra mondiale: il caso del Vescovo austriaco Alois Hudal, in “settimanale cattolico”, anno XXV, n. 30, 31 agosto 2003, p. 12; Simón Wiesenthal, The Murderers among us, Heinemann, Londra 1967; W. Brockdorff [Alfred Jarschel], Flucht vor Nürnberg. Plane und Organisation der Fluchtwege der NS-Priminenz in “Römischen Weg”, Welsermüuhl Verlag, Munich 1969; G. Sereny, In quelle tenebre, 1974, Adelphi, Milano 1994; L. Farago, Aftermath. Martin Bormann and the Fourth Reich, Pan, Londra 1976, pp. 210-212; H.M. Meding, Flucht vor Nürnberg? Deutsche und Oesterreichen Einwanderung in Argentinien 1945-1955, Böhlau, Colonia 1992; J. Camarasa, Organizzazione Odessa. Dossier sui nazisti rifugiati in Argentina, Mursia, Milano 1998, p. 11; Mark Aarons e John Loftus, Ratlines, Newton Compton, Roma 1993; id., Unholy Trinity. The Vatican, the Nazis and the Swiss Banks, St. Martin’s Griffin, Nueva York 1998, pp. 25-47.

[4] A.D.S.S., voll. X: “Le Saint-Siège et les victimes de la guerre (Janvier 1944 – Juillet 1945), Mgr. Hudal au pape Pie XII sur l’assistance religieuse aux Allemands internés par les Alliés en Italie, 9 octobre 1944, Libreria Editrice Vaticana, 1980, n. 344, pp. 435-436. Ivi, Notes de Mgr. Montini. Organisation de l’assistance aux prisonniers et internés allemands en Italie, 1er novembre 1944, n. 380, pp. 463-464.

[5] F. Bertagna – M. Sanfilippo, Per una prospettiva comparata dell’emigrazione nazifascista dopo la seconda guerra mondiale, in “Studi Emigrazione/Migration Studies”, XLI, n. 155, 2004, p. 528.

[6] C. Jackish – D. Mastromauro, Identificación de criminales de guerra llegados a la Argentina según fuentes locale, in “Ciclos”, n. 19, 2000, pp. 217-235.

[7] F. Bertagna – M. Sanfilippo, Per una prospettiva comparata dell’emigrazione nazifascista dopo la seconda guerra mondiale, cit., p. 532.

[8] H. M. Meding, Refugio seguro. La emigración alemana de la posguerra al Río de la Plata, in Beatriz Gurevich – Carlos Escudé (comp.), El genocidio ante la historia y la naturaleza humana, Buenos Aires, Grupo Editor Latinoamericano, 1992, pp. 249-261. Cfr. anche G. Steinacher, Argentina, país de huida de los nacionalsocialistas?, University of Nebraska – Lincoln, Faculty Publications, Department of History. Paper 134, p. 240; Id., Nazis on the Run: How Hitler’s Henchmen Fled Justice, Oxford University Press, 2012, pp. 5-10.

[9] Gerhard Bohne (Braunschweig, 1° luglio 1902 – 8 luglio 1981) giunse in Argentina, proveniente da Genova, il 29 gennaio 1949 a bordo del primo transatlantico italiano ad attraversare l’Atlantico Meridionale denominato Anna C. Subito si presentò il 4 aprile 1949 alla Polizia Federale con la richiesta di una carta d’identità mostrando un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa Internazionale il 23 agosto 1948 n. 83.465, approvato dal console argentino a Genova il 7 gennaio 1949. C. Jackish – M. Nascimbene, Cuantificación de criminales de guerra según fuentes argentinas, Informe final CEANA, 1998, pp. 38-39.

[10] Holger M. Meding, La ruta de los nazis en tiempos de Perón, Buenos Aires 2000, p. 195.

[11] Archivio Collegio S. Maria dell’Anima (d’ora in poi A.C.S.M.), Carte Hudal, scatola 27, fasc. aprile 1948 e fasc. maggio 1948. Vedi anche M. Sanfilippo, Per una storia dei profughi stranieri e dei campi di accoglienza e di reclusione nell’Italia del secondo dopoguerra, in “Studi Emigrazione”, XLIII, n. 164, 2006, pp. 835-836.

[12] Cfr. U. Goñi, Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l’Argentina di Perón, cit., pp. 264-266, 405-407 e passim.

[13] Il 23 luglio 1948, Hellmuth Schönherr, un altro che era stato per tre anni prigioniero di guerra, asserì che era in possesso di un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa e voleva emigrare in Argentina o Paraguay cfr. Ivi, 27 luglio 1948. Il 7 dicembre 1949, Joseph Braasch scrisse a mons. Hudal da Aquisgrana per raccomandare tre ingegneri, senza tuttavia citare i loro nomi, che volevano emigrare in Argentina o in Brasile cfr. Ivi, 25 febbraio 1950. Questi particolari sono riportati in M. Sanfilippo, Los Papeles de Hudal como fuente para la historia de la migración de Alemanes y Nazis después de la segunda guerra mundial, cit., p. 11.

(Pagg. 181-183)


Capitolo I

L’AFFAIRE ROSSONI

Gli anni della clandestinità e le tappe dei rifugi

  1. Il monastero di “S. Ambrogio” della Curia Generalizia dei Benedettini sublacensi ed il retroscena della fuga dall’Italia verso la nunziatura apostolica di Dublino ed in Canada (23 novembre 1945 – 6 dicembre 1947).

Il soggiorno di Rossoni presso il Santuario di Montevergine, tuttavia, durò soltanto quattro mesi; difatti, con l’approssimarsi della stagione invernale, nel timore di essere scoperto dai numerosi turisti che si recavano sul monte a sciare, dopo aver indossato prudentemente l’abito talare, fu condotto in una località ignota che, non era il monastero benedettino di S. Maria della Scala di Noci, un paesino in provincia di Bari, come erroneamente ipotizzato dal cronista di Montevergine, bensì quello romano di S. Ambrogio annesso alla Curia Generalizia dei benedettini sublacensi.[1] Difatti, l’abate Caronti a bordo di un’auto recante le insegne dei corpi diplomatici vaticani, il 23 novembre del 1945, giunse di persona a Montevergine col preciso intento di prelevare l’ex gerarca fascista e condurlo con sé a Roma, ospite per qualche tempo del monastero di S. Ambrogio. In questa circostanza, però, prima di ripartire alla volta della capitale, per maggiore precauzione il presule benedettino provvide a fargli cambiare identità; cosicché da quel momento in poi quel misterioso “professore Redi”, così come si era presentato giungendo presso il Santuario di Montevergine, dopo aver indossato la tonaca assunse le sembianze dell’oblato regolare fra Catello Tommasini,[2] originario di Castellammare di Stabia, il quale da più di vent’anni risiedeva presso il cenobio benedettino svolgendo le mansioni di sarto e infermiere. L’abate Caronti, infatti, per fugare ogni sospetto sulla vera identità dell’ex gerarca fascista e agevolarne la fuga, fu costretto ad escogitare questo stratagemma in modo da consentirgli il rilascio di un passaporto di copertura.

Pertanto, prima di lasciare definitivamente il Santuario di Montevergine si era posto l’arduo problema di trovare un monaco che potesse vagamente rassomigliargli, considerato che, di norma, sul documento diplomatico doveva comparire anche un’adeguata foto di riconoscimento. Fu così che, dopo aver valutato attentamente ogni particolare, la scelta cadde su un frate che rispondeva per l’appunto al nome di fra Gerardo Tommasini (al secolo Catello).

[1] Difatti dalle ricerche effettuate nelle cronache del monastero di S. Maria della Scala di Noci (Bari), non è stata rinvenuta alcuna traccia della presenza di tale personaggio tra la folta schiera di rifugiati che, nella temperie di quei giorni, furono ospitati dalla comunità benedettina pugliese. Interpellando alcuni monaci più anziani presenti all’epoca dei fatti qui narrati, è stato possibile appurare che i gerarchi fascisti presenti nel monastero in quel periodo erano almeno tre, forse addirittura quattro tra i quali non figurava affatto il nome di Edmondo Rossoni, considerato che quest’ultimo aveva seguito tutt’altra strada che da Montevergine lo aveva condotto direttamente a Roma. Ad ogni modo, bisogna anche tener conto che, tra il 1945 e il 1946, l’abbazia benedettina di Noci si rivelò un’autentica zona franca dove si rifugiarono diversi personaggi collusi con il regime fascista, tant’è vero che, il 26 gennaio del 1946, si legge nelle cronache: «Giungono stamane da Roma il Prof. Ciotti, pittore con un signore che ci viene presentato dal Rev.mo Abate Generale [Caronti] con preghiera di tenerlo nostro ospite. Si tratta di un colto professore in lettere T. Giorgio…». La provenienza da Roma, la raccomandazione dell’abate Caronti, i puntini di sospensione alla fine della frase lasciano intendere che doveva trattarsi, evidentemente, di un altro personaggio da tenere nel massimo rispetto, salvaguardando la sua incolumità e custodendolo al sicuro tra le mura del monastero. In seguito, il 16 aprile, si legge sempre nelle cronache conventuali che: «Giungono due altri ospiti secolari, il Sig. Cencio Concetti di Roma e Sandro Toce di Venezia [che il 13 maggio successivo partità per Bari e poi si recherà nel Nord Italia] residenti entrambi temporaneamente in Taranto, amici dell’ospite Filippo Nani [di Taranto]. Si fermano con noi alcuni giorni per assistere alle nostre sacre funzioni della Settimana Santa». Il 26 aprile, invece, «al pomeriggio giunge all’improvviso Sua Ecc. Mons. Marcello Mimmi arcivescovo di Bari in macchina con due giovani sposi di Cremona. Raccomanda vivamente al p. Priore di accettare come ospiti i due signori. Tenuto conto della gravità della situazione di essi, cercati a morte dalle autorità, e della raccomandazione di Sua Ecc., il Priore accetta in monastero come ospite il marito di detta Signora e questa viene ricoverata in Villa presso Donna Laura Lenti in qualità di dama di compagnia». Probabilmente si trattava di quel «Sig. Bruno colla Sig.ra Antonietta ospite presso Donna Laura [Lenti]» che il cronista cita nelle cronache il giorno della loro definitiva partenza da Noci avvenuta l’8 settembre 1946. Il 14 giugno di quello stesso anno, infine, si legge che: «Al pomeriggio parte definitivamente l’ospite Filippo Nani, l’unico che era restato stabile e a noi affezionato e che compensava sufficientemente l’ospitalità, mentre tutti gli altri elementi fluttuanti sono stati ospiti gratuitamente per settimane e settimane in numero di tre o anche quattro per volta. La presenza di questi ospiti più volte ci ha apportato seri disturbi specie per il gran consumo di luce e difficoltà di vettovagliamento. Tutti erano sprovvisti di tessere e consumavano pane destinato ai monaci. Per lo più per gli ospiti si è avuto trattamento speciale» (Cronache del Monastero di S. Maria della Scala di Noci,  vol. II – 1937/1946). Inoltre, presso l’abbazia benedettina di S. Maria della Scala di Noci, fu ospitato anche un monaco benedettino che correva seri pericoli di vita. Alludiamo a padre Salvatore Marsili, noto liturgista e stimato professore presso il Pontificio Ateneo Internazionale S. Anselmo di Roma il quale, negli anni successivi, si metterà in luce per il contributo dato alla riforma liturgica postconciliare. L’abate generale Caronti, avendo saputo che lo si voleva eliminare, probabilmente proprio per via dei suoi legami di parentela con il generale fascista Rodolfo Graziani, gli aveva imposto l’obbedienza di trasferirsi a Noci, senza spiegargliene il motivo. Fu proprio l’obbedienza alle direttive del suo superiore che gli salvò la vita. Morì, infatti, nel 1983 a distanza di parecchi anni. Inoltre, p. Giulio Meiattini ha riferito a chi scrive che un monaco anziano vivente in quegli anni, gli ha confidato che tra questi illustri ospiti rifugiatisi presso l’abbazia di Noci, bisogna annoverare finanche la presenza di un nipote del re (Testimonianza resa all’autore da p. Giulio Meiattini o.s.b., 20 agosto 2002).

[2] Fra Gerardo Tommasini (al secolo Catello), era nato il 25 gennaio 1897 a Castellammare di Stabia, un paese in provincia di Napoli, dal matrimonio tra Domenico e Francesca Genovino. Il suo ingresso ufficiale nel monastero benedettino di Montevergine avvenne il 6 maggio 1923, allorché si celebrò il rito della “vestizione” come postulante, mentre il 30 dicembre successivo fu ammesso al noviziato. L’anno seguente ricevette la “vestizione noviziale”, a cui fece seguito la professione temporanea pronunciata il 28 gennaio 1925. Fra Gerardo Tommasini morì il 10 febbraio 1967. Mediante un atto pubblico l’oblato consegnava la propria vita a Dio col proposito di vivere nel mondo nello spirito e nel senso della regola di San Benedetto. L’oblazione secolare consisteva essenzialmente nell’assumersi, da parte di persone che conducevano la loro esistenza nelle ordinarie condizioni di vita di tutti gli altri uomini, l’impegno di una maggiore perfezione cristiana secondo lo spirito benedettino; impegno che si rendeva possibile, appunto, con l’affiliazione ad una determinata comunità monastica. L’oblato benedettino, dunque, per prima cosa entrava in contatto con un convento disposto ad accoglierlo. Non si impegnava molto dunque all’ordine in generale ma soltanto alla “sua abbazia” prendendo parte alla preghiera comunitaria del convento. La consacrazione dell’oblato avviene per gradi: innanzitutto chi desidera diventare oblato ha la possibilità di contattare il Rettore degli oblati incaricato dall’abate. Quindi, dopo aver ottenuto l’approvazione di quest’ultimo può iniziare un periodo di prova della durata di circa un anno con un rito di accettazione. L’abate, al termine dell’anno del corso di prova del candidato, dopo un colloquio con il Rettore degli oblati, decide che l’oblatione può avere luogo. In un rito ad hoc l’oblato si offre a Dio promettendo, come cristiano, di vivere nel mondo “sotto la direzione del vangelo” e nello spirito della regola di S. Benedetto.

(…)

© Giovanni Preziosi, 2016

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